E’ balzata agli onori della cronaca la straordinaria cavalcata di Ivan Gakhov, russo, numero 198 del mondo, adottato tennisticamente dalla Spagna. Eroe capace di raggiungere il secondo turno a Montecarlo dopo essersi uno spot nelle qualificazioni all’ultimo secondo. Tre vittorie in tre set: il transalpino al tramonto Mannarino, quello in rampa di lancio Van Assche, e poi l’americano McDonald, che ancora maldigerisce larga parte della stagione sul rosso. Il buon Ivan si è così guadagnato uno dei teatri più affascinanti del Tour: terzo match di giornata sul centrale di Montecarlo, imbrunire dorato, dall’altra parte della rete il numero uno del mondo Novak Djokovic.
In molti si sono prodigati nel raccontare le gesta del «carneade che ha sfidato Djokovic», anche molti canali generalisti. Media in visibilio per la sua storia commovente, fiumi di inchiostro per quel «Rublev dal cuore d’oro» che presta i completini al connazionale sprovvisto di sponsor. Fa tenerezza vederlo entrare in campo con quattro brand diversi indosso, vederlo stringere la mano al campione serbo come un ragazzino al suo idolo, al migliore di sempre – parole sue – troppo emozionato per abbandonare con fredda professionalità quel palcoscenico così speciale per lui.
Speravo – invano – che il fantastico primo set da lui disputato (perso al tiebreak, ma ha avuto anche un break di vantaggio) fosse sufficiente a smorzare, placare, la retorica stucchevole dell’outsider di lusso, l’ampollosità smielata legata alla meteora inaspettata che diventa protagonista d’eccezione, gemma preziosa che viene alla luce «dopo essere stata nascosta chissà dove per tutto questo tempo». Niente da fare, occasione mancata anche questa volta. Per parafrasare i mitici Aldo, Giovanni e Giacomo, l’appassionato medio (e più di qualche addetto ai lavori, purtroppo) è convinto che il 200 al mondo e gli altri ignoti frequentatori del circuito Challenger «non siano professionisti, ma presi dalla strada». Come se per arrivare lì bastassero buon fisico e discreta coordinazione, qualche wild card di quelle giuste o una benedizione divina.
Gakhov ha giocato con il proverbiale braccio sciolto e Djokovic, va detto, era a velocità di crociera, in quella terra monegasca che storicamente non è un suo grande feudo (ne è riprova la sconfitta odierna con Musetti). Mancino, solido, completo. Si è anche concesso qualche vezzo nei pressi della rete. A sottolineare uno dei tanti suoi colpi finiti con merito negli highlights è arrivata la melensa chiosa del telecronista: «c’è da chiedersi dove sia stato fino a oggi...»
Mi sia concessa un’umile risposta. E’ stato lì, tutto il tempo, assieme a tanti altri, a giocare a questo gioco con uguale o maggiore dedizione di quelli che in televisione si vedono più spesso, e per giocare a questo gioco non serve avere la maglietta della stessa marca del polsino. Quel primo set dovrebbe essere l’ennesima prova empirica (Karatsev, Van Rijthoven, Safiullin, Cerundolo [...] docet) che tra il circuito maggiore e quello minore intercorre una differenza nel livello di gioco spesso minima, e che particolari parametri relativi a superficie, condizioni atmosferiche, forma fisica, motivazione e fiducia possono, talvolta, annullarla.
Quindi, la domanda cruciale non dovrebbe essere dove sia stato Gakhov fino ad oggi, ma perché Gakhov, per aver vinto il Challenger di Girona, dopo cinque battaglie, qualche giorno fa abbia portato a casa 9.880€ lordi - la stessa cifra, a mero titolo esemplificativo, che il più illustre collega Van de Zandschulp ha incassato in quei giorni per una sconfitta al primo turno nell’esotico ATP 250 di Marrakech.
E per questa domanda non ho una risposta.
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