Wta Indian Wells: Azarenka va a caccia del terzo titolo BNP Paribas Open mentre Paula Badosa vuole agguantare il primo Masters 1000 della sua carriera. La storia che raccontiamo è quella di una finale bellissima che ha visto la spagnola alzare la coppa più grande.
Paula Badosa a 18 anni vince il Roland Garros juniores e sembra lanciata a una carriera stellare. Gioca bene ed è fisicamente potente, cosa può fermarla? Sei anni dopo però non ha ancora vinto niente, o per lo meno niente di quello che ci si aspettava. Non si registrano gravi infortuni e non sembrano esserci stati incidenti di sorta. Ad arrestare la corsa della spagnola è stato l’arresto di un ingranaggio mentale. Basta che si sganci un bullone e il gioco è finito. Il tennis è formato prevalentemente dalla testa, non puoi essere un campione se il cervello non regge i ritmi. Se hai talento puoi essere un buon giocatore, ma non puoi essere il numero uno se non hai anche una spiccata forza mentale.
Il punto è che siamo umani, non puoi allenare la testa come alleni il corpo. “Mens sana in corpore sano”, scusa Giovenale ma non è facile ottenere queste due cose quando si vive in un sistema sbagliato. Ultimamente assistiamo sempre più spesso a disperate dichiarazioni che riguardano la salute mentale e su come andrebbe preservata, su come le pressioni siano troppe e le difficoltà a gestire tutto siano estenuanti. Il primo nome che ci viene in mente è sicuramente Naomi Osaka, che negli ultimi mesi ha urlato e gridato, pestato i piedi a terra, per dire la sua. A seguire Cori Gauff, che a soli 16 anni ha sperimentato l’esperienza bruttissima della depressione a seguito delle forti pressioni imposte dallo sport e dal successo. E ora anche Paula Badosa ha parlato: quei sei anni di vuoto sono stati dovuti alle difficoltà mentali e all’ansia.
“È importante condividere questo messaggio, vedo che anche altri atleti hanno passato e stanno passando questo momento, non sono l’unica. Siamo in uno sport molto duro e la depressione è davvero difficile ma capita spesso qui. Quando sono triste penso a situazioni come queste e quelle che vivrò (cfr. finale Indian Wells)”
Nel frattempo, in questi ultimi dieci anni, Victoria Azarenka incassava due slam e ben 19 titoli Wta, metteva al mondo Leo, combatteva con l’ex compagno per la custodia del figlio, conquistava la prima posizione mondiale per due volte e affrontava una dura parabola discendente nel 2017 uscendo anche dalla top 200. Poi finalmente il ritorno: rientra nella top 20 nel 2020 e torna a giocare una finale slam. Il 2021 non è un anno eccezionale per lei, ma arriva a Indian Wells carica di energia ed esprime il suo miglior tennis dopo tanto tempo.
Ecco allora lo scontro finale: da una parte una giovanissima, con poche esperienze, qualche demone interiore ma tanto cuore VS un’esperta del settore, una giocatrice che non molla mai, che di finali ne ha disputate tante e che ha altrettanta voglia di vincere e riscattarsi. Il risultato? 3 ore e 4 minuti di pura magia in cui entrambe meritavano di portare a casa il trofeo maggiore. Alla fine, è la spagnola a festeggiare con il punteggio di 7/6 2/6 7/6. Entrambe hanno regalato al pubblico uno spettacolo che sarà difficile da dimenticare: Badosa con una grande solidità e potenza, Azarenka con variazioni di gioco tra volée e palle corte efficaci. La campionessa bielorussa si è avvicinata tanto così alla conquista della partita, ma, sul 5-4 30 zero nel terzo set, il braccio ha tremato e la spagnola non se l’è fatto sfuggire. Il tie-break decisivo è stato un monologo di Paula Badosa che l’ha vista piangere di gioia a chiusura del sipario.
La vittoria della testa e del cuore. La mente che dopo tanto lavoro e sacrificio può finalmente trionfare e tirare un sospiro di sollievo e il cuore che può sollevarsi da terra, alleggerirsi e gioire. Non tutte le vittorie sono uguali, alcune valgono di più. Questa è una di quelle.
Riprendendo un concetto da un contesto diverso, ricordo che Mark Fisher parlando del capitalismo diceva che trattare i disturbi mentali come se fossero provocati da nient’altro che qualche squilibrio chimico o neurologico dell’individuo, o come se fossero un semplice retroterra familiare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistematica. Ora, in questo meccanismo sportivo, non vorrei che capitasse lo stesso fenomeno. Vorrei che si analizzassero le cause e le conseguenze e si individuassero le crepe nella macchina dello sport che conducono molti i giocatori a sofferenze mentali.
Ecco perché Paula Badosa ha vinto due volte. La prima perché ha portato a casa un Masters 1000, la seconda perché per un giorno ha sconfitto il sistema che l’ha soffocata e ha riscattato se stessa.
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