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Immagine del redattoreRiccardo Eger

Il re è morto, evviva il re

Aggiornamento: 25 set 2022

Ricordo ancora quel pomeriggio assolato in cui cadevi spossato, nel tuo giardino, sotto i colpi di Milos Raonic. Un giullare dal servizio irreale scalzò il re tremebondo e malfermo dal suo trono. Il ginocchio non ce la fa più. I riflessi spenti, una realtà come rallentata. Una videocassetta rovinata che non regge il confronto con lo scintillante avanzare dei nuovi potenti giocatori. Le occasioni sprecate, come tante se ne ricordano nella tua carriera – e quante ancora ne verranno, dopo il 2016! – ammantano di profana imperfezione una storia sportiva diventata ormai tanto grande da essere perfetta per antonomasia.


In quel giorno, davanti al televisore, avevo l’impressione che davvero qualcosa fosse cambiato. Il quinto set, la fatica, i punti che ti sembravano scivolare dalle mani veloci, proprio a te che del tennis hai sempre fatto una danza dal ritmo sempre incalzante. Il tempo sedimenta sensazioni, ricordi ed esperienze. Allora probabilmente non mi rendevo conto di quanto tu potessi influire sulla mia vita, quel piccolo Riccardo che colpiva contro il garage immaginandosi all’interno di quei campi che hai dominato per così tanto tempo. Le racchette come le tue, le bandane – anche se il ciuffo non era mai ordinato come il tuo – il rovescio a una mano. Quel giorno davanti al televisore pensavo che tutto ciò fossero ormai solo dei ricordi polverosi, e mi sbagliavo.



Il 29 gennaio 2017 è per me la tua più grande epifania. Momento catartico, conciliante, pacificatore. Tornato dopo il ruzzolone di Wimbledon dell’anno prima, vinci una partita dopo l’altra, sudando, soffrendo, e ti ritrovi a giocare la finale che tutti desiderano. Ancora una volta Nadal, la tua nemesi, contro la quale – tolta Basilea – non vinci da cinque anni. Creatura mondana venuta per seminare sgomento nel tuo regno, atleta infinito e incommensurabile che sono stato capace di comprendere a pieno soltanto quest'anno. Sempre il solito rompicapo, la stessa matassa da sbrogliare. Il solito dritto centrifuga dello spagnolo da cui scansarsi. Dopo così tanti anni, nel 34esimo scontro diretto, ha avuto la forza e la capacità di inventare qualcosa di nuovo, di effettuare un altro salto evolutivo. Piedi sulla riga e rovescio coperto, sempre, da ogni posizione, spesso in controbalzo e con angoli allucinogeni. Di gran lunga il più enorme spettacolo sportivo a cui abbia assistito in televisore, sentito al pari forse soltanto di una partita dell’Italia, un’adrenalina senza eguali. Sudore, gambe che tremano, euforia, eccitazione, lacrime – prima di tristezza quando sembra un’altra sconfitta, di gioia alla fine – e ancora incredulità, la sensazione di essere stato svuotato di ogni cosa, di aver assistito al tennis totale, a tutto e al contrario di tutto, 6-4 3-6 6-1 3-6 6-3, piangi anche tu, ancora una volta, come sempre, nei momenti più memorabili, ci ricordi che in fondo sei fatto come noi.



Poco importano le coronarie saltate nel 2019, un titolo mancato che forse avrebbe spezzato in tuo favore la lancia definitiva e inequivocabile per la nomea del più grande di sempre. Lo sport è fatto di migliaia di momenti come quelli, del centesimo che separa un oro e un argento, del rigore che si stampa sulla traversa, del braccio che trema su quell’attacco di dritto troppo semplice per essere vero. La vita, allo stesso tempo, è fatta così: dopo un concerto magnifico di due ore e mezza se un violino stona l’assolo è l’unica cosa di cui ci si ricorda. Tutto quello splendore offerto dall’orchestra pare dimenticato. Ecco, Roger, grazie anche di questo. Non solo per essere stato idolo ed esempio, per aver regalato al mondo emozioni che pochi hanno saputo e sapranno donare. Grazie perché contrariamente al sentir comune, che racconta di un talento innato e sovrannaturale, ci hai insegnato un’etica del lavoro senza pari. Se nei primi anni sembravi davvero sceso in terra con doti superiori, affrontando problemi, infortuni, avversari straordinari, davanti ai miei occhi le tue imprese acquisiscono ancora più valore. Perché raccontano la storia di un uomo e un atleta che ha fatto fronte alle sue debolezze e ha vinto le avversità, a più riprese, con il sacrificio, con l’abnegazione, con quel tuo modo così umano di essere divino e tornando a stupire ancora, ancora e ancora.


Le roi est mort, vive le roi!


Con questa formula, durante la monarchia assoluta francese, si annunciava al contempo la fine del regno e il contestuale avvento del successore, sottolineando la continuità ininterrotta dell’istituto monarchico. Una grande pagina del nostro sport se ne è andata, ne verranno scritte molte altre. La religione del tennis evolverà, tutta la spiritualità che Roger Federer concentrava in una sola persona si dissiperà in molteplici nuovi eroi capaci di impressionare e coinvolgere allo stesso modo. Fermarsi di fronte alla storia che s'interrompe senza accorgersi di Alcaraz, Sinner, Medvedev, Ruud, Zverev, Berrettini, Auger e tutti gli altri, sarebbe sciocco ed estremamente superficiale. Long live the King, dunque. Bisogna farsene una ragione, è ora di voltare pagina, anche se non si può mai essere pronti. Cercavo un modo per concludere questa mia dissertazione, poi mi imbatto in Wikipedia, e penso che per stavolta, forse, sia più appropriato un raccolto e didascalico silenzio.




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