Ceci n’est pas un article de journal. Questi sono i deliri crepuscolari di una ventisettenne che dorme poco, mangia male e pensa troppo.
Non scrivo da un po’, ma questa sera c’è nell’aria un’energia che mi trascina e nella testa proietto immagini che, come nel novanta per cento delle volte, riguardano il tennis. Sto rivedendo mentalmente la finale femminile dello Us Open. E sì a tratti anche quella maschile, perché diciamolo che le lacrime di Djokovic e i tre set a zero presi da Medvedev hanno colpito un po’ tutti. Ma non voglio soffermarmi su di loro, quello che davvero questa sera mi sta portando a scrivere è la partita di Emma Raducanu contro Leylah Fernandez.
Lo so che arrivo in ritardo, la finale è stata sei giorni fa, ormai ne hanno straparlato di queste due stelline. Ma voglio dire la mia, voglio azzardare: l’11 settembre, sul centrale di Flushing Meadows, abbiamo visto due campionesse. Di quelle intenzionate a restare e cambiare la storia.
Vi spiego. David Foster Wallace parlava dei “Momenti Federer”, quei momenti che tutti gli amanti del tennis hanno avuto davanti alla televisione seguendo il circuito maschile. Diceva che guardando giocare il campione svizzero la bocca si spalanca, gli occhi strabuzzano e si emettono versi tali da spingere tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene. Questi momenti sono tanto più intensi se si ha un’esperienza diretta del gioco e si comprende l’impossibilità di quello che si è appena visto. In sostanza Wallace descrive un orgasmo.
Ecco, questo è quello che ho provato per tutta la durata del torneo mentre seguivo il percorso delle due giovani tenniste. La mia era un’eccitazione continua nel vederle procedere incessantemente nel tabellone e in men che non si dica mi sono trasformata in una loro fan sfegatata, con i pop-corn in mano e le esclamazioni sbraitate addosso alla tv a ogni punto. Ho ritrovato la passione per il tennis femminile.
Raducanu e Fernandenz, la prima partita dalle qualifiche e la seconda nel tabellone principale, hanno battuto rispettivamente, prima di scontrarsi in finale, Vogele, Zhang, Sorribes Tormo, Rogers, Bencic, Sakkari e Konjuh, Kanepi, Osaka, Kerber, Svitolina, Sabalenka. Un'impresa che in pochi si sarebbero aspettati. Forse nessuno. Eppure ce l'hanno fatta e i meriti vanno riconosciuti tutti.
Negli ultimi dieci anni le partite femminili si sono trasformate in cannonate da fondo campo, missili sganciati col dritto e col rovescio e fine. Niente più gioco di rete, niente più spostamenti in avanti, niente più cambi di ritmo, variazioni, originalità. Ho iniziato a trovare tutto piuttosto monotono e noioso. Quest’anno però, per la prima volta dopo tanto tempo, allo Us Open ho ritrovato il brio di quando da piccola guardavo con gli occhi sognanti il gioco di Martina Hingis o Justine Henin. Vedere le battaglie della canadese Leylah Fernandez e le vittorie impressionanti dell’inglese Emma Raducanu mi hanno ridato fiducia.
Sono passati sei giorni e io sono ancora qui a pensare alla loro finale. E quando ripensi a qualcosa evidentemente è perché ti è entrata in testa, no? Stare qui a rimuginarci sopra mi ha fatto capire una cosa: se ti ha lasciato così tanto è perché c’era tanto da osservare. La cosa che più mi ha colpito, più del loro talento, più del loro gioco e della loro bravura, è stato il loro atteggiamento in campo. Sembravano due macchine da guerra – pronte a bersagliare e abbattere l’avversario – con il sorriso sulle labbra – godendosi ogni partita disputata –. Ho notato questo grande contrasto: erano allo stesso tempo incredibilmente forti mentalmente, come se avessero avuto l’esperienza dei grandi, ed erano incredibilmente divertite, come se stessero semplicemente godendosi il momento in un caldo pomeriggio newyorkese con l’ingenuità dei piccoli.
Io dormo poco ma sogno molto e da sei giorni sogno di poter vedere un’altra finale tra queste due splendide giocatrici. Secondo me hanno tutte le carte in regola per farcela. E se ci riusciranno beh… io ve l’avevo detto.
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