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Immagine del redattoreEmy Damiani

Tennis, Wallace, trigonometria, tornado

È il 1999 quando in Italia esce una raccolta di saggi di David Wallace: “Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)”. Lo scrittore americano, già acclamato dalla critica per il suo stile ironico e complesso, si consacra così anche come saggista e osservatore del proprio tempo, coniugando i suoi studi aritmetici con le sue passioni e le sue stranezze.


A metà degli anni ’70 David Foster Wallace era quasi un campione di tennis nella categoria juniores. Prendeva parte a tornei nell’Illinois, nell’Indiana e nell’Iowa, ma non era robusto, né veloce e aveva dei polsi così sottili che li poteva stringere tra pollice e mignolo. Non era un ragazzino particolarmente talentuoso, sudava troppo e non era così attraente con le ragazze. Qualche anno dopo, però, venne fuori che era particolarmente talentuoso nella scrittura. E nella matematica. E nella matematica applicata al tennis. Così è nato il saggio “Tennis, trigonometria e tornado”.


Quello che DFW fa in questo scritto è unire l’analisi matematica con i suoi ricordi da ragazzino. Descrive le condizioni climatiche dell’ambiente in cui è cresciuto, che definisce «da un punto di vista matematico interessanti, e da un punto di vista tennistico terribili», e descrive la sua attitudine a questo clima poco invitante. Si lascia andare a una disquisizione sul vento, su quanto questo sia predominante nell’area dell’Illinois della sua infanzia, su quanto la sua unica dote sportiva sia proprio quella di conoscere bene questo agente atmosferico e non quella di padroneggiare bene la racchetta. Parla di geometria dei posti, di linee, di rette, intersecazioni, quadrati, rettangoli, seni e coseni.


Quando lasciai il mio distretto squadrato in mezzo alla campagna dell’Illinois per andare a frequentare l’università [...], sviluppai un’improvvisa fissazione per la matematica. Comincio adesso a capirne il motivo. Per uno del Midwest, la matematica del college produce un’evocazione catartica della nostalgia di casa. Io ero cresciuto in mezzo a vettori, rette, rette che intersecano rette, griglie – e, all’altezza dell’orizzonte, le ampie linee curve delle forze della natura, il bizzarro assetto topografico a spirale di un immenso lotto di terra stirata dalle glaciazioni, che si poggia e ruota su placche geologiche.

Se non sei un appassionato di tennis ma lo sei di matematica questo è il saggio che fa per te. Se sei un appassionato di tennis ma non di matematica questo è il saggio che fa per te. Se non ti piace nessuna delle due cose, sei comunque nel posto giusto, perché questo saggio è scritto talmente bene da lasciare incantati. Wallace ha saputo combinare sport e materia scientifica, campi da tennis ed equazioni, ricordi d’infanzia ed eventi atmosferici. Sapeva di non essere un bravo tennista ma sapeva che aveva due cose dalla sua parte: la prima è che sudava così tanto da risultare fresco con qualsiasi tipo di tempo, e l’altra:


Una dote ancora più grande era che mi trovavo talmente a mio agio in mezzo alle linee rette. Neanche l’ombra della strana claustrofobia geometrica che dopo un po’ trasforma giovani e talentuosi juniores in insofferenti animali da zoo. Trovavo che mi sentivo al meglio fisicamente in mezzo a questa rete di angoli precisi, bisezioni acute, spigoli ben tagliati. Questo era il mio habitat. Philo, Illinois, è una griglia sghemba. [...] Al college durante un’esercitazione mi venne in mente all’improvviso che il differenziale tra direzione della mano puntata e arco di rotazione della sua ombra era del primo ordine. [...] Amavo la raffinata relazione delle linee rette più di ogni altro ragazzino con cui sono cresciuto.

Quello che lo scrittore tenta di spiegare è come egli possa ricostruire i suoi ricordi di infanzia «con un righello ed un goniometro». Con la sua precisione stilistica è in grado di raccontare e di raccontarsi alla perfezione, descrivendo la forza brutale del vento e il fastidio che provocava e che lui, a differenza di altri, sapeva padroneggiare. Perché David sapeva destreggiarsi bene nelle difficoltà e quando gli altri ragazzini cedevano, lui vinceva. Wallace non era forte, era tenace. Aveva fondato persino una sua personale religione del vento: sfidava le correnti in bicicletta facendo una specie di zig-zag, cosa che nessun altro faceva, sapeva sfruttarle a proprio favore e la stessa cosa accadeva nel campo da tennis.


«Quando giocavo a tennis tra gli juniores, per un certo periodo ho sentito di essere un abitante del mondo fisico reale in un modo diverso dagli altri ragazzini», questo è il suo pensiero, che esce fuori dalle righe rettangolari che compongono il campo e abbraccia anche la realtà esterna. DFW non parla solo di tennis, ma attraverso di esso arriva a parlare di molto altro: della sua adolescenza, della sua pubertà che tardava a sbocciare, della sua verginità e di come tutto questo lo facesse sentire alienato non solo dal suo corpo glabro ma anche da quegli elementi esterni che aveva sempre considerato complici. Riesce a spiegare come crescendo abbia perso questa sua bravura di padroneggiare il vento, perché, semplicemente, andando avanti ha iniziato ad affrontare tornei in strutture sportive avanzate in cui le condizioni atmosferiche non incidevano più. Così:


[...] io semplicemente non ero più lo stesso senza deformità cui adattarmi durante il gioco. Ora penso che il vento, gli insetti e le spaccature costituissero per me una sorta di confine interiore, la mia personalissima collezione di linee di riferimento. Una volta che arrivai a un certo livello di impianti di torneo, mi sentii handicappato perché non ero capace di adattarmi alla mancanza di difficoltà cui adattarmi. Se questo ha un senso. Anche senza l’ostacolo dell’inquietudine adolescenziale e dell’alienazione dalla realtà fisica, la mia carriera tennistica nel Midwest si arrestò nel momento in cui vidi il mio primo telone antivento.

David si descrive quasi come un mostro che si sente in difficoltà quando si trova a vivere senza ostacoli. Questa era la sua condanna e lo è sempre stata: lui era bravo laddove gli altri non lo erano, nelle condizioni più disastrose. Il saggio si conclude con il racconto di un episodio che vede partecipi lui, un altro ragazzo e un tornado e, come ormai abbiamo capito, la sua scrittura è arricchita dalla comprensione matematica e da una profonda conoscenza filosofica di sistemi simbolici. Questi elementi li ritroviamo anche negli altri saggi dedicati al tennis e nei romanzi: si crea un ponte tra lo sport e la sua scrittura elaborata, dinamica e riflessiva. Così la solitudine dello scrittore, la solitudine di quell’io che vuole trascendere la realtà, è anche la solitudine del tennista.

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