Ottavi di finale dell’US Open, 2012. Nel tunnel dell’Arthur Ashe Stadium il numero uno del mondo Roger Federer si sta preparando per affrontare Mardy Fish, lungagnone americano risorto nella stagione tennistica corrente. Si è issato fino alla settima posizione del ranking, ottenendo risultati sorprendenti e la qualificazione alle Finals, nel biennio precedente.
Questa partita, però, non si giocherà. Il pubblico torna a casa deluso, i fari di Flashing Meadows si spengono. Ma si è spento qualcosa anche dentro Mardy, ha realizzato che «non deve giocare per forza». Memore dei fantasmi della partita con Simon, vinta senza gioia né ebbrezza, accarezzando il vuoto, rimanendo sempre sul ciglio di un pozzo buio e profondo dal quale è molto complicato uscire.
Di questo parla il docu-film Untold, Fish vs Federer. Fare la fame prima di raggiungere, finalmente, la fama. A quale prezzo? Con quanti sacrifici? È un background comune a moltissimi tennisti, e per raccontarlo è stata usata la storia di Mardy Fish. La quale inzia nella prestigiosa Saddlebrook Academy, fucina di talenti istituita nel 1993 dalla federazione statunitense, dove Mardy e il suo amico-nemico Andy (Roddick) vengono giornalmente indottrinati da un mental coach che insegna loro l’etica del lavoro «a testa bassa», quello che «non ammette piagnistei, proteste, o scappatoie». È una forzatura nascondere – insieme a vesciche, escoriazioni, dolori articolari – tutte le insoddisfazioni, le insicurezze, i rancori che questo sport si trascina dietro. Alla lunga questo calderone di emozioni represse fuoriesce, dilaga, e spezza in due le personalità più fragili. L’agonismo sfrenato è un farmaco i cui effetti collaterali superano i benefici; terminata l’iniezione di adrenalina da esso provocata, il corpo dell’atleta si svuota per lasciare posto alle paure, alla depressione, e si rimane schiacciati dalla pressione legata alla prestazione. Mardy è stato il primo, perlomeno nel tennis, ma è una sensazione raccontata in molti, da Naomi Osaka a Simon Biles, la celebre ginnasta americana che ha preferito non competere in quasi tutte le specialità in cui era iscritta alle Olimpiadi di Tokyo, fino ad arrivare a Paula Badosa.
Aldilà di quale sia la verità storica, e quanto questo sia diversa da quella che Fish ci ha voluto raccontare, queste pellicole sono interessanti e utili per sfatare l’aura di magnificenza che avvolge gli atleti nel sentir comune, ed evidenziare le contraddizioni di un mondo – quello dello sport ad alto livello – che viene descritto dai media in maniera farraginosa. Fa apprezzare ancora di più ogni goccia di sudore, che traspare dal vivo ma oramai anche dalle televisioni in 4K, ogni sforzo muscolare atto a rimandare la palla dall’altra parte della rete, e rendere più accettabili eventuali sfuriate e racchette disintegrate.
留言