Una sottile riflessione mascherata nel racconto,
una follia in chiave nietzschianamente post-moderna,
sul rientro alla competizione del campione elvetico a Ginevra.
Ieri l’altro, ero al circolo per la consueta ora di forsennato palleggio del dopo lavoro col mio socio di sempre. Gli intenti tennistici erano come sempre i più alti, i più nobili: 60 minuti di esercizi dediti alla pulizia dell’impatto e della precisione millimetrica dei colpi. Ma come sovente accade a noi peregrini erranti della racchetta, dopo un breve riscaldamento con volée e servizio appena abbozzati, la voglia della competizione più bieca e sfrenata ha avuto l’ennesima volta la meglio sulle buone intenzioni di partenza. Ed eccoci, io e il mio socio, tesi a contenderci ogni 15 correndo come i disperati su ogni palla schizzata via sulla linea dopo un maligno dritto steccato.
“Sei il solito, non sai nemmeno in che modo fai arrivare di qua la palla e vinci questi punti… fai schifo” esclama il mio socio dopo l’ennesimo cross stretto subito fortuito, con livello di voce inaudito, tanto da far sgattaiolare fuori la testa preoccupata del gestore dalla finestrella del bar del circolo.
“Taci, inverecondo maiale putrido, nei campi a mangiar biada di pessima fattura devi finire, non puoi pascolare qui con quella racchetta storpia, avvelenando il sangue blu dei campioni mancati” rispondo teatralmente, alla Vittorio Gassman (fu grande appassionato di tennis), giusto per far innervosire ancor più il mio socio, al limite di una crisi di nervi.
Il gestore dall'oblò osserva in religioso silenzio, con sguardo rassegnato, lo scempio in atto. Dopo 54 minuti di faida animale, arriviamo a giocarci la Birra (la posta in gioco a carico dello sconfitto) al tie-break finale. La prestanza atletica dei nostri fisici allenati da quasi quarantenni ci consente ancora di non richiedere l’intervento del defibrillatore, e restiamo lì, a remare imbrattati, sputando arcigni sulla terra rossa ogni singola goccia di saliva pregna d’agone e di sudore. Tutto vale per aggiudicarsi la contesa. Che spunta come sempre il mio socio, il maledetto, per un mio back di rovescio affossato triste in rete sul più bello. É un colpo che non ho mai imparato a giocare, il back di rovescio. Cristo. Calano bestemmie dal cielo plumbeo sopra il circolo. Le faccio risuonare altisonanti sul terreno scarlatto prestandomi al ruolo di umanofono diffusore del mal verbo celeste. Il gestore in perdurante silenzio imbarazzato, s’avvicina a noi, sta per proferire parola... ma lo stoppo sul nascere con buon timing educato.
“Due birre in bottiglia, ghiacciate, grazie. Tocca a me offrirle…” ordino al gestore tuttofare, mentre mi siedo al tavolino esterno, asciugandomi il corpo dalle scorie tossiche dell’incontro. Dopo di noi, su quel campo maltrattato dalla nostra maratona degli orrori, degni di una ipotetica sesta categoria, calcano ora il terreno 4 arzilli vecchietti, sulla settantina direi, per un amichevole doppio agè dai sentori retrò.
"Ridicolo. Piuttosto che ridurmi così... mi dedico al punto e croce all'uncinetto" mi rivolgo al socio mentre sorseggio la birra in bottiglia."Ma che cazzo vai farneticando fratello, guarda come si divertono a impattare la pallina nel centro perfetto del piatto corde... ridicolo sei te che con 30 anni di meno fai ancora scenate per una partita persa in allenamento! Guarda come se la godono...” m’interrompe seccato il mio socio, che mira pignolo il lento palleggio armonico dei 4 scricchiolanti senatori.
La dolce dilatata melodia della gialla accarezzata dalle liriche corde di quel quartetto cetra riempiva il silenzio inebetito, nato al seguito della pusillanime stronzata, uscita poco prima da quella mia cavità orale inzuppata d'astio e di luppolo. I vecchietti infatti erano lì, beati e illuminati, a swingare liberi e felici nella loro ora di gloria e passione, non curanti del trascorrere del tempo, protetti da una bolla invisibile agli occhi degli stolti ma avvertita dal cuore dei sensibili. E io seduto, sudato, rattrappito, rimuginavo sul fatto di non sentirmi più competitivo sulla soglia dei quarant'anni.
“Vado a casa, non ci capisco più nulla di questo sport… odio il tennis! Lo odio!”
“Bravo fenomeno… vai a piangere a casuccia… ma non dimenticarti di saldare il conto!”
Andando verso la cassa del bar del circolo, ho alzato in alto lo sguardo: in TV davano il ritorno del Re. No, non
l'epico episodio del signore degli anelli. Si trattava di Federer contro Andujar, primo turno del piccolo torneo nel feudo medioevale di Ginevra. 5-4 al terzo per lo spagnolo, con Roger al servizio per rimanere nella partita. Il fuoriclasse svizzero pareva imbolsito, rallentato nel suo solito rapido gioco di gambe e drammaticamente irriconoscibile per il passato livello.
"Ridicolo. Piuttosto che ridurmi così…” rivolto così al gestore mentre estraevo la carta di credito dalla tasca laterale del borsone sporco di terra.
"Ma allora sei proprio un irrecuperabile coglione!” di controbalzo, con timbro solenne il redivivo uomo del circolo continua “tu non hai compreso ancora l’essenza di questo magnifico sport…”
“E quale sarebbe questa essenza, maestro?” un mio affannoso tentativo di recupero.
“Beh, l’essenza del tennis è…” in procinto di chiudere il punto.
“Fammi per cortesia una minerale gassata, che qui lo sforzo comincia a farsi sentire” interruppe la mistica rivelazione uno dei 4 vecchietti del doppio, con quella richiesta acquifera direttamente dal campo centrale.
In contemporanea, sincrono diafasico, Andujar compiva il miracolo sportivo al santuario di Ginevra, chiudendo l’incontro al terzo match ball, vincendo in tre set contro sua maestà RF.
“Ascolta, te la svelo un’altra volta questa essenza… ora ho da servire il signore!”
Perplesso, mi sono limitato ad appoggiare la carta senza contatto al dispositivo di pagamento, senza controbattere, accettando ciò che il destino mi aveva riservato. Che m'importa in fondo, tanto sono ricco. Salutato mesto tutti i presenti, lungo la via del ritorno a riflettere se valeva la pena continuare o meno a far del male a me, agli avversari, al pubblico, ai miei cari, alla pallina stessa. Dio, non ne vengo proprio fuori.
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